Nepal – sulle orme di Giuseppe Tucci (I parte)

Il monsone che sta flagellando la parte meridionale del paese qui non è ancora arrivato, ciò nonostante la strada che corre tra Katmandu e Pokara è un susseguirsi di frane e smottamenti, veicoli fermi sul bordo della strada colpiti da massi, alcuni ribaltati a ridosso del burrone. La chiamano autostrada, ma quella che percorriamo è una via accidentata che serpeggia tra foreste e fiumi in un immensa nube di terra battuta alzata dal traffico intenso che toglie il respiro e costringe a tenere chiusi i finestrini.

Si incontrano pochissime macchine, in compenso file interminabili di vecchissimi e malconci camion indiani affollano per l’intera lunghezza il tragitto, superandosi con sorpassi rocamboleschi, gareggiando tra loro per chi ha il clacson più assurdo ed il colore più sgargiante della carrozzeria. Si incontra di tutto, dalle decorazioni a sfondo religioso, tra le quali primeggia Shiva col suo tridente, al camion di un devoto del Manchester United con tanto di gigantografia pittografica dello scudetto del club. In tutto questa confusionaria, asfissiante, carnevalesca traversata dura otto interminabili ore di auto.

Quando Giuseppe Tucci viaggiò in queste contrade, percorse a piedi lo stessa strada impiegando 15 giorni, all’epoca tutto era completamente diverso, quello che vide fu un paese fermo al medioevo, con una cultura millenaria ancora intatta che probabilmente nessun europeo, eccezion fatta per qualche sparuto missionario nel ‘700 aveva ancora visto. Ed era solamente l’inizio del suo viaggio.

Tucci è un nome che oggi dice poco, ma all’epoca del suo epico viaggio (erano gli anni ‘50) era considerato il maggior orientalista del mondo. Aveva già visitato più volte l’India, il Tibet ed il Nepal, fermandosi, però sempre a Kathmandu al fine di compiere studi storico – linguistici. Questa volta, raccolti fondi e attrezzature si stava addentrando in un paese misterioso. Tra gli scopi principali del suo viaggio c’era quello di esplorare il leggendario Regno di Lo, un reame semiindipendente al confine con il Tibet in cui nessun occidentale aveva messo piede e che per cultura e tradizioni doveva essere un punto di incontro tra la cultura Tibetana – buddista e la Nepalese – induista. Ne trasse un libro che ha fatto storia, Tra Giungle e Pagode. Ed è proprio con questo libro davanti gli occhi che inganno il tempo all’aeroporto di Pokara, in attesa del volo che ci condurrà a Jomson, uno dei percorsi aerei più pericolosi del mondo. Il cielo non si decide a schiarire. A vista i membri della compagnia aerea osservano lo sviluppo del tempo, in trepidante attesa di una finestra che permetta al bimotore di passare fra due ottomila ed entrare nella valle. Fremiamo dalla voglia di essere nel Mustang, come si chiama oggi, e ripercorrere a piedi lo stesso itinerario di Tucci. Neanche Si Ta, la nostra guida, è tranquilla nonostante sia un Rai, razza coraggiosa.  Si Ta non assomiglia né alla popolazione in parte Tibetana che abita queste zone, né tantomeno ai Newari, stanziati soprattutto nella zona della Capitale. Nonostante la carnagione olivastra ha tratti decisamente più asiatici. Condivide con la maggior parte degli abitanti del Nepal una statura piuttosto bassa, ma ha un grande orgoglio negli occhi. Il suo popolo abita le colline a sud del paese. Mentre gli traduciamo cosa dice la nostra guida sulle diverse etnie sorride divertito e con ampi gesti di conferma o diniego sottolinea inesattezze e verità. Scopriremo nel corso del viaggio che possiede un sottile senso dell’umorismo e un senso del servizio nei nostri confronti che a volte ci metterà in profondo imbarazzo. Gli chiedo della compagnia aerea. E’ stata fondata da due fratelli, poi uno è morto. “Incidente aereo?” azzardo “si”. Appunto. Qualcosa si muove, finalmente si parte.

Il nostro itinerario a piedi inizia da Kagbeni, in cinque giorni di cammino raggiungeremo la mitica città di Lo – Mantang, antica capitale del regno. Già qui a Kagbeni due costanti che ci seguiranno per tutto il viaggio si mostrano con tutta la loro imponenza: il Kali Gandaki, fiume nero, che scorre limaccioso lungo tutta la valle, custode dei riti, guardiano dei luoghi sacri. Proprio qui, a Kagbeni, un torrente che scende dalla città santa di Muktinath si getta nelle sue acque oscure. Ogni confluenza è sacra a queste genti. Quando la spedizione di Tucci passò in questo luogo egli ebbe modo di annotare: “Il luogo, come tutte le confluenze partecipa di una essenziale sacralità; il capitano, che è molto devoto, e Ciandra scendono sulle rive e con l’acqua attinta dove i due fiumi si confondono riempono una bottiglia e la sigillano con cura: la porteranno piamente alle loro case da tenere in serbo per la cerimonia della focaccia rituale (pinda) che una volta l’anno viene offerta ai mani degli antenati”. Accanto a questa lenta, nera, secolare massa d’acqua, la modernizzazione del paese corre molto più veloce. Lungo il fiume squadre di operai stanno costruendo argini per il passaggio di una strada. Li vediamo uscire sudici ed impolverati dai loro accampamenti, misere trincee scavate nella terra arida coperte da teloni gialli. Il prezzo del progresso da queste parti è ancora pesato in vite umane. Si Ta ci parla con orgoglio di questa nuova impresa avviata dal governo. Negli occhi, però, abbiamo scene già viste in tanti paesi in via di sviluppo e raramente queste storie hanno un lieto fine.

Davanti a noi si stende un paese arido, camminiamo interi giorni senza incontrare un albero, il paesaggio è dominato da rocce e cespugli. Immense pareti si ergono come bastioni immensi. Le uniche tracce umane sono i Chorten, sorta di cappelle campestri che solitamente contengono e custodiscono delle reliquie. Siamo ad altitudini elevate, in media tra i due  e i quattromila metri. Le bandiere di preghiera fanno da altare ad ogni passo montano, con il loro tipico rumore che ricorda il galoppo dei cavalli. Proprio questa è l’origine del loro nome Luntak, dove lun sta per vento (che da queste parti non manca mai) e tak significa cavallo. Mentre camminiamo immense vallate ci si parano davanti e panorami tanto vasti che l’occhio riesce a stento a carpirne l’ampiezza. Questo è il paese della libertà, degli antichi nomadi tibetani, delle distanze immense, dove tutto appare enorme e lontanissimo, dove i picchi si stagliano imponenti, e i sentieri sembrano arditamente disegnati su fianchi impercorribili.  L’uomo qui ha trovato un ambiente costruito come una sfida continua. Il tempo, il possesso hanno preso forme completamente diverse rispetto all’occidente. Che senso ha la fretta quando la natura ti pone davanti ostacoli anche nelle distanze più brevi?

Entriamo nella guest House, un odore penetrante misto di fumo, cucinato e chissà cos’altro ci assale; è il secondo giorno di cammino e siamo giunti a Samar, che Tucci mirabilmente descrive come poche case appollaiate in una gola racchiusa fra due groppe di monte aureolate dalle rovine di templi e castella. Qui poche case significa letteralmente sei o sette case, costruite in pietra. Le più grandi da quando è arrivato il turismo, si sono convertite in una specie di alberghi per viandanti, sono costituite da una corte centrale e da un numero variabile di stanze che vi si affacciano, ormai siamo abituati a quanto questi luoghi possano essere spartani. Raramente troviamo acqua calda, qualche volta neanche l’acqua corrente. I bagni sono per lo più buchi nel pavimento di terra battuta, con il secchio e un mestolo come scarico. Ma stavolta dobbiamo adattarci ulteriormente, non ci sono posti nelle stanze riservate ai viaggiatori, ci sistemano in quelle destinate ai portatori, con letti duri e bagno nell’orto. Ci laviamo in un ruscello che canta cristallino e freddo nell’orto; l’alternativa è una sorta di fontanile comune nell’atrio. Una specie di vittoria dell’essenzialità prende il sopravvento. Qui non ci sono comodità che abbiano senso. Gustiamo affamati il nostro Dal Bhat, piatto unico composto da riso, verdure e, nei momenti migliori un po’ di carne. Ogni giorno. Sono i gesti, i sorrisi, i bambini che ti guardano stupiti mentre mangi ciò che crea il pasto. Momento di riposo, di confronto, di conoscenza intriso di sacralità e spensieratezza. In quest’ottica cosa importa se hai appena visto le tue verdure cucinate per terra in condizioni igieniche tali da creare scene di panico generali in qualunque ASL dell’occidente? O se fuori dalla casa tibetana in cui sei arrivato per pranzo pende attaccato ad un albero la carcassa di un vitello appena scuoiato, mentre tu partecipi alla preparazione dei momo su un pavimento tutto terra e polvere? [continua]

VIAGGIO SULLE CIME DELLA ROMAGNA…BLOG 09

ZAMBOTREKKING, CRAL COMUNE E PROVINCIA DI RIMINI e

ANSPI SAN RAFFAELE RIMINI

presentano

VIAGGIO SULLE CIME DELLA ROMAGNA

QUARTA TAPPA

SAN LEO MINIERA 20,5 Km / dislivello positivo 1183 mt / dislivello negativo 1274 mt

 

I nostri amici si rimettono in viaggio… si parte da San Leo per raggiungere Perticara

 

Zambo: dopo questa buona colazione è ora di ripartire, ci aspettano molti km da fare!

Emma: ho riposato proprio bene, ci sono !

Gianluca: andiamo, Perticara arriviamo !

Zambo: ci dirigiamo verso Maiolo, paese noto per il suo famoso pane a base di farine locali e preparato con antichi metodi. Ogni anno a fine Giugno si organizza la Festa del Pane. Questo vecchio borgo è conosciuto anche per la Rocca di Maioletto (link video), che nel medio evo era considerata inespugnabile, al pari della Rocca di San Leo.

 

Gianluca: il castello era chiamato”Castrum Maiulus” inteso come castello minore rispetto al “Castrum Maius”, cioè quello maggiore di San Leo. Appartenne alla Chiesa, ai conti Faggiola di Casteldelci, ai conti Montefeltro di San Leo, ai Malatesta di Rimini ed al Ducato di Urbino fino a che, nel 1631, passò sotto il dominio dello Stato Pontificio. La sua posizione strategica rappresentava la chiave d’accesso alla vicina San Leo e per questo fu causa di dure lotte tra le signorie dei Montefeltro e dei Malatesta.

Emma: una rocca che ha avuto purtroppo un tragico destino!

Zambo: proprio così!… tra il 29 e il 30 maggio del 1700, dopo 40 ore di intensa pioggia una parte del monte franò travolgendo completamente il paese di Maiolo e provocando un centinaio di vittime, solo 4 case si salvarono miracolosamente.

I sopravvissuti si spostarono nelle zone limitrofe e dove oggi sorge Maiolo, che ne ereditò il nome. La rupe dove sorgeva il castello prese da allora il nome di Rocca di Maioletto.

Se guardiamo bene, la forma attuale della rupe deriva di quella tragedia. Infatti della vecchia fortezza sono rimasti solo alcuni tratti delle mura di cortina, due torrioni poligonali e i ruderi del borgo.

 

Gianluca: questo disastro ebbe anche un grosso impatto emotivo sulla popolazione locale che collegò subito quest’evento ad una punizione divina inflitta per una pratica particolare a cui sembra fossero dediti gli abitanti locali dentro le mura del castello nelle notti di luna piena, il cosiddetto “ballo angelico”, cioè una pratica orgiastica presente anche in tante storie dell’Italia rurale, ad esempio sui monti della Romagna, nel Casentino, in Maremma, in Garfagnana e in Irpinia che viene ritenuta dagli studiosi come un residuo di credenze ancestrali, un vero e proprio rito di fertilità praticato tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera.

La fama sinistra del monte era in realtà già iniziata anni prima, difatti nel 1644 un fulmine aveva colpito il deposito delle polveri da sparo della fortezza distruggendo parte delle mura e della strada che conduceva al forte.

 

Emma: leggende a parte l’ipotesi più realistica è che la frana sia stata provocata dalle frequentissime piogge che hanno eroso lentamente il terreno del monte, in gran parte argilloso. In effetti le cronache del tempo riportano che in quegli anni ci furono quantità straordinarie di precipitazioni, causate a loro volta da cambiamenti climatici passati alla storia come la “piccola era glaciale” tra il 15° e il 19° secolo che colpì l’emisfero settentrionale.

Emma: quindi laggiù, sotto la rupe, sepolti dai detriti della frana e dall’argilla scomposta ci sono quindi resti del vecchio paese.

Zambo: esatto! Questa zona è caratterizzata da un paesaggio desolato calanchivo ma allo stesso tempo ricco di fascino. Ci si arriva facilmente tramite un sentiero che parte dalle case di Poggio, vicino al paese di Maiolo, e che si sviluppa su calanchi formati da argille con colori che vanno dal rosso al bruno, dal verdastro al giallo, dal grigio al nero, con ripide pareti ed ampie voragini che scendono a valle dove sono presenti anche grandi inghiottitoi.

 

Gianluca: impossibile non chiedersi come sia stato possibile costruire una cittadina in un terreno talmente instabile, costituito principalmente da fango secco. Lungo il percorso sono presenti magnifiche praterie che ricoprono in primavera parte dei calanchi e dove sono state censite ben seicento specie di piante! Questo è uno dei motivi per cui la zona è stata dichiarata d’interesse comunitario e quindi soggetta a protezione speciale da parte dell’Unione Europea come “Rupi e Gessi della Valmarecchia” che include anche il Monte della Perticara ed Monte Pincio. Alla fine dell’inverno questo spazio incontaminato è colorato da numerosissime farfalle. Il sentiero arriva fino alla Chiesa di San Rocco, l’unico edificio sopravvissuto alla frana.

Emma: …comunque l’alone di mistero di questo posto sembra continuare fino ad oggi. Infatti la gente del posto racconta ancora leggende di fantasmi vittime della frana che in quel luogo sembrano danzino di notte un ballo contadino senza fine mentre, di giorno, può capitare invece di imbattersi in cercatori di oggetti antichi muniti di metal detector!

Gianluca: questa Valmarecchia mi sorprende sempre di più con le storie incredibili dei suoi borghi!

 

Prossima tappa…

 

Emma: prossima tappa?

Zambo: Novafeltria, prima andremo su una via sterrata e poi su strada asfaltata con il Monte Pincio sul nostro orizzonte e San Leo ormai alle nostre spalle.

In Australia tra i Kuku Yalanji, figli della Foresta

La navigazione di ritorno è molto più calma rispetto a quella dell’andata. Il catamarano naviga tranquillo in alto mare. Siamo di ritorno dall’isola disabitata di Lady Musgrave, in piena barriera corallina a largo della costa orientale dell’Australia (se vuoi leggere l’avventura a Lady Musgrave clicca qui https://laricercadellessenziale.blogspot.com/2020/01/sullisola-deserta-della-barriera.html). Facciamo conoscenza con due insegnanti australiani che sono qui per fare snorkeling. Julie e Graham sono esattamente il tipo di professori che in Italia facciamo fatica ad avere, curiosi, piacevoli e a modo loro avventurosi. Mentre conversiamo amabilmente (tra un tuffo ed un altro nelle soste del catamarano) ci parlano di un luogo che li ha profondamente colpiti. Ne descrivono con toni entusiastici il fascino naturalistico e culturale. Non avevamo mai sentito parlare della Mossman Gorge, né, ovviamente era minimamente in programma la visita. Decidiamo di cambiare piano e andare.

L’ampio parcheggio lascia intravedere in fondo una struttura futuristica a vetrate. Il centro visite è chiaramente un progetto ambizioso di valorizzazione della cultura aborigena. La Mossman Gorge è una profonda incontaminata gola aperta faticosamente da un limpido fiume attraverso le montagne. E’ la patria del popolo dei Kuku Yalanji, che hanno vissuto qui fin da tempi remoti. All’appuntamento per la visita si presenta un bus guidato da un aborigeno obeso; faccio mente locale e mi guardo intorno, la percentuale di obesi è impressionante. Mi viene in mente ciò che dice Jared Diamond a proposito dell’aumento di obesità, malattie cardiovascolari e ipertensione tra gli abitanti indigeni della Nuova Guinea: il fisico dei popoli che per secoli hanno condotto una dieta pressoché priva di sale e zucchero non ha sviluppato strategie per sintetizzarli in modo efficiente come i popoli industrializzati; l’adozione di uno stile di vita occidentale diventa una vera e propria epidemia di problemi di salute. Mentre il bus scalcinato ci conduce verso l’inizio della gola passiamo accanto ad una sorta di baraccopoli recintata fatta di penosi prefabbricati bianchi. I figli della foresta ora vivono qui, nel mezzo di una sterile terra bruciata dal sole a ridosso di quella che fu la loro casa originaria, per gentile concessione della politica governativa.

Ma non perdiamoci d’animo. All’inizio della gola viene a recuperarci la nostra guida (magra) dal nome impronunciabile (figuriamoci a scriverlo). Da questo istante viviamo tutta un’altra storia. Ricorda vagamente Bob Marley, ma parla con passione della sua gente, della sua terra. La Mossman Gorge è una ripida gola coperta di una vegetazione lussureggiante, percorsa da un torrente che salta tra le rocce coperte di muschio. Un luogo selvaggio. I Kuku Yalanji chiamano la foresta “Madre” e ci chiedono di entrare con rispetto. Prima di incamminarci ci sottopongono alla cerimonia del fuoco. Dobbiamo girare varie volte intorno ad un fuoco acceso lasciandoci avvolgere dalle spire del fumo. Serve ad allontanare gli spiriti cattivi, dice lui, ma io sospetto che in realtà ha il solo scopo di toglierci l’odore di civiltà di dosso. Poi, con voce ferma e tonante, avverte lo Spirito della Foresta che questi sconosciuti sono con un suo figlio (i Kuku si definiscono figli della foresta) e stanno camminando con lui da amici. Per questa gente la foresta è contemporaneamente un supermercato, una casa, una madre e un’università. Mentre camminiamo esplorando la gola, guardingo su un tronco, ci osserva uno splendido Rainforest Dragon, grande rettile arboreo della famiglia Hypsilurus.

Intanto scopro quanto un luogo sacro possa essere semplice. Due grandi rocce che poggiano l’una sull’altra lasciando un varco che ricorda un portale. In questo luogo i figli della foresta celebrano le quattro cerimonie più importanti della tribù: nascita, iniziazione, matrimonio e morte. L’iniziazione in particolare riveste un ruolo fondamentale, segna il passaggio all’età della responsabilità personale e avviene intorno ai tredici anni. Arriviamo al fiume. I Kuku hanno un rapporto simbiotico con questo ambiente, si lavano e bevono la sua acqua. La nostra guida ci invita caldamente a berne (probabilmente sa che in molti si rifiuterebbero) come gesto di condivisione il popolo e con l’ambiente in cui sono immersi in una unità difficile da comprendere. E mentre beviamo, in un attimo di distrazione lui si è già spogliato e sta facendo il bagno nel fiume, la sua giornata di lavoro è finita, la foresta può riprendersi finalmente suo Figlio.

2° Escursione MtbSchool 2020 – 16 Febbraio 2020

Come spezzare la quiete naturale di una domenica mattina!!

Anche la seconda escursione in programma della scuola di mtb del 2020 è andata archiviata.

Domenica 16 febbraio 2020 rimarrà negli annali della scuola di mountainbike perché è stata la prima in assoluto dove i ragazzi ed i bambini hanno “provato” l’ebbrezza della guida su sentieri veramente impegnativi!!

Ci sono voluti 2 anni di lavoro al bike park per ricavarne i primi frutti; dico questo per due motivi sostanziali:

  1.  riuscire ad affrontare km di sterrati composti da pietre, radici, portage ecc. non è roba da tutti;
  2. portarli a termine senza dover “spingere” ed aiutare qualche bambino, è cosa ancora più rara;

Tutto questo si è verificato ieri!!

Il gruppo dei “veterani” non ha avuto nessun problema ad affrontare le insidie del percorso (e non avevo nessun dubbio su di loro), ma la sorpresa è stata vedere i più piccolini affrontare i tratti tecnici in singletrack e doubletrack, senza mettere una sola volta il piede a terra!! Chi conosce il percorso sa quanto sia difficile anche per i più grandi.

Per me è stata una piacevolissima sorpresa, perché tempo fa quando avevo ideato il percorso, ero un po scettico sulla riuscita dell’escursione stessa del gruppo; ipotizzai che i più piccolini non ci sarebbero riusciti e che l’avrebbero percorsa con molti tratti a piedi e con la bici a spinta, invece ho visto bambini come Pietro, Mauro, Antonio e Noemi (i più piccolini per citarne alcuni) attraversare tutti le difficoltà (rock garden in salita e discesa, radici affioranti, pietre smosse ecc.) seduti in sella…vedere poi i loro sorrisi luccicare al sole di una mattina di primavera, questo non ha prezzo: spettacolo nello spettacolo!

Senza considerare che tra una roccia e l’altra, al mio invito di compiere un salto, quasi tutti obbedivano e li vedevi librarsi in aria come veri funamboli della bici!

Alla fine il resoconto tecnico è il seguente:

  • distanza percorsa: 16km di percorso;
  • durata della pedalata: 2h06′;
  • dislivello accumulato: 100mt;
  • numero di partecipanti: 22 bambini + 14 adulti!!
2° Escursione MtbSchool 2020 - 16 Febbraio 2020
La cartina del percorso

Friuli Mon Amour

In questo periodo di forzata clausura, sentite la voglia irrefrenabile di un viaggio originale, vario ed eco-sostenibile?? Il Friuli fa senz’altro al caso vostro!!

Il Friuli-Venezia Giulia, o più propriamente il Friuli, e cioè la zona centro-occidentale della regione individuata politicamente, è un territorio bellissimo, pieno di ricchezze architettoniche, culturali e culinarie, ma poco battuta dal turismo di massa: cittadine alle pendici delle Prealpi, come Spilimbergo, dove medioevo e rinascimento si mescolano nei loro splendidi palazzi e castelli o paesi, come Venzonerimasti nel trecento.

Friuli Mon Amour
Spilimbergo – Copyright Ziegler175
Friuli Mon Amour
Spilimbergo, sfilata medievale
Risultati immagini per venzone
Duomo di Venzone

Ma il Friuli è soprattutto natura selvaggiaweBeach, oltre a trovare qui abbondanza del suo pane quotidiano – favolose spiagge incontaminate – ha scoperto profondissime grotte calcaree dove il sole non arriva mai, caratterizzate da strettissimi canyon che piccoli torrenti continuano a scavare da millenni. Qui, anche in piena estate, dovrete munirvi di maglioncino e k-way!

Grotte di Pradis

E’ provato che le grotte di questa zona offrirono riparo agli ultimi cacciatori neandertaliani di orsi delle caverne, di cui un esemplare è ricostruito, in base ai resti ossei rinvenuti, nel vicino Museo.

Friuli Mon Amour

© 2020 Comune di Clauzetto

Numerose legende legate alla figura chimerica del grifone, creatura dal corpo di leone e la testa d’aquila, affollano la mitologia: la più antica raffigurazione sembra risalire addirittura al periodo predinastico egiziano (5.500 – 3.100 a.C.). Ebbene … weBeach ha scoperto che il grifone esiste veramente (beh forse non con il corpo da leone e la testa d’aquila …): in Friuli c’è una splendida riserva naturale gratuita dove si possono osservare, sostanzialmente in libertà, le comunità di questi grossi e rari uccelli, oltreché di diversi mammiferi. A dispetto della gratuità, il personale è completamente appassionato e dedicato ai visitatori.

Grifone

© Fulvio Genero

Da non dimenticare le gioie del palato, qui in Friuli generalmente a buon mercato: San Daniele, patria del prosciutto forse più rinomato al mondo, dista pochi chilometri dalle selvagge spiagge scoperte con passione da weBeach. Diciamocela tutta, in Friuli si mangia da re, noi abbiamo scoperto un’azienda agrituristica, il cui ristorante propone i succulenti piatti della tipica cucina friulana, serviti in una incantevole terrazza panoramica che offre una vista mozzafiato sulla pianura friulana, le alpi e, nelle giornate più limpide, arriva fino al mare! L’agriturismo, completamente immerso nel verde e con una variegata comunità di animali domestici ben fornita (tra cui la capra camosciata, più simile ad un camoscio che ad una capra) farà la gioia dei vostri figli. Si può anche dormire più che comodamente: noi – una famiglia di 4 persone – pensando di passarci una notte, siamo arrivati a farne 7!  😉

Agriturismo terrazza panoramica

Che dire? I primi ingredienti ci sono tutti in Friuli, ma è il tocco magico che fa la differenza per creare la ricetta ideale per una vera esperienza di wild swimming …

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Spiagge sabbiose in abbondanza, piscine naturali da urlo, perle nascoste e selvagge, un torrente sorprendente che potrete risalire con un’emozionante esperienza di canyoning alla portata di tutti, bombardati dai suoi incredibili colori, spiagge dove campeggiare liberamente. Anche un idromassaggio naturale, che neanche quelle SPA a 7 stelle, che intenderebbero riprodurre una natura ideale, avrebbero potuto fare meglio! Una mini-diga da cui potrete tuffarvi in una verdissima, cristallina piscina naturale profonda 4-5 m!

Supper tuffo dalla mini diga - weBeach - Torrente delle meraviglie

Il tutto condito da acque azzurre e cristalline, pure tra le più pure che abbiamo mai visto.

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weBeach ha immortalato questo capolavoro della natura che è il Friuli nella guida weBeach – Friuli e Isonzo, con ca 45 spiagge favolose e democraticamente esclusive!

La Via della Lana e della Seta

Un cammino lungo il crinale tra Bologna e Prato.

Nella Primavera del 2018 ho l’occasione di percorrerlo con il CAI di Bologna ed il suo Project Manager: Vito Paticchia. Un’esperienza, vuoi per la presenza di Vito che ha a cuore questo cammino, come un padre ha a cuore un figlio, per la sua competenza, ma soprattutto per la Bellezza dei luoghi attraversati. Ho preso anche io a cuore questo progetto, credendoci. A giugno 2018 l’inaugurazione ufficiale tre giorni da Prato a Castiglione dei Pepoli (centro del cammino) in una festa, un incontro con quelli che venivano da Bologna guidati da Vito. Per terminare fra cibo, musica e cultura dell’Appennino. Festa che si è ripetuta lo scorso anno e che si manterrà perché è divenuta parte integrante di questo Cammino.

Un po’ diverso dalla famosa Via degli Dei, che corre sul crinale opposto giungendo a Firenze, questo Cammino lo trovo più selvaggio, ma al tempo stesso ricco di Borghi e di paesi che raccontano tante storie. Dalla Resilienza di chi ha avuto il coraggio di rimanere nell’Appennino o di chi invece ha voluto tornarci, stanco della vita frenetica di città che umanamente offrono sempre meno.

Luoghi che raccontano storie di un recente e brutale passato di cui è opportuno mantenerne sempre viva la memoria.

Borghi che nascondono gioielli di passati fastosi e  in ultimo la Calvana un massiccio calcareo caratterizzato dai suoi animali allo stato brado ove si tocca il punto più alto di questa via, gli scarsi 1.000 metri del Monte Maggiore.

Cosa unisce Bologna a Prato, qual è stato il filo conduttore che ha ispirato e fatto realizzare questa percorso lungo 130 km e diviso in minimo 6 tappe?

Per cominciare due grandi opere idrauliche: Bologna e Prato due città non attraversate da un fiume nell’anno 1.000 e dintorni, hanno il bisogno di avere “acqua corrente”, si cominciano pertanto queste due grandi opere di ingegneria idraulica, tutt’oggi perfettamente funzionanti che, convogliano le acque dei vicini Reno e Bisenzio, in canali e gore che attraversano poi le città, permettendo nei secoli addietro anche il fiorire di opifici.
Bologna è stata per almeno due secoli la Capitale Mondiale della Seta, mentre Prato sviluppa la produzione di altre fibre tessili, in particolare la lana.

Il percorso inizia dai Canali di Bologna con la Chiusa di Casalecchio per terminare al Cavalciotto di Prato, attraversando un Appennino da vivere.

Ora bisogna percorrerlo per vivere l’emozione di Esserci

Damiana Fiorini©

La Via degli Dei Olistica

La Via degli Dei Olistica

Il cammino, che dopo il “Cammino di Santiago” e la “Francigena” conta il maggior numero di frequentatori. Un percorso molto più breve rispetto ai due precedenti, “solo” 130 i chilometri separano Bologna da Firenze attraverso l’antico cammino, forse già Etrusco, che porta in Appennino escursionisti da ogni dove. Se ne contano fra i 6.000 e i 10.000 all’anno. E’ un cammino famoso e forse anche di moda, tanto che ci sembrava quasi “banale” proporlo come cammino a sé stante, seppur con guida e trasporto bagagli. Dal 28 aprile al 3 maggio insieme a Maria Carmen Caramalli: Psicologa, Counselor e Insegnante di Yoga, ne faremo una versione speciale. Sarà un cammino tutto al femminile, l’abbiamo voluto definire un “cammino nel cammino”. Se la meta è il cammino stesso, ad essa abbiamo aggiunto la voglia di lavorare con il Femminile Sacro per rendere questo percorso non solo diverso, ma anche più intenso. Il Cammino, in genere, rappresenta una ricerca interiore, ispirati dal silenzio e dalla meditazione a cui porta il camminare, noi a questo aggiungiamo due sessioni giornaliere di approfondimento, rivolte a riscoprire la propria parte Femminile e Sacra. Grazie al tour operator Appennino Slow questo nostro progetto è divenuto una realtà. Lo trovate nel catalogo di Appennino Slow dal 28 aprile al 3 maggio. Oltre alla guida, io che vi accompagnerò sul sentiero, la presenza di Carmen sarà un ulteriore sostegno, supporto e aiuto nelle sessioni giornaliere.
Condivideremo il Cammino, ma anche la gioia di stare insieme fra donne, raccontandoci, condividendo, esplorando. Le strutture sono state selezionate appositamente per noi da Appennino Slow, ci trasportano i bagagli più pesanti cosicché a noi resterà solo ciò che ci serve per l’escursione giornaliera, insieme ad un materassino leggero.

Se ancora non lo avete percorso e stavate aspettando l’occasione giusta, bene è arrivata

 

New Zealand, north island…una gran voglia di tornare!

Due parole di geografia.

Dall’altra parte del mondo. E pure a testa in giù… come nei cartoon della prima ora, con le figure ritagliate a “caposotto”. Ecco la Nuova Zelanda come la immaginavo da piccolo. Un posto lontanissimo e mitico, perso nelle nebbie dell’antartide, luogo di pirati e di selvaggi giganti Maori.

Poi cresci e il mito diventa sogno. La voglia di fuggire, che non ci lascia mai, mi porta a sognare di andare in un posto come l’Italia ma dall’altra parte del mondo. Già perché uno strano destino geografico accompagna la penisola italica alle isole della Nuova Hollandia, come le chiamarono i primi esploratori olandesi. L’estensione dei nostri due stati non è molto diversa: 270.500 kmq per New Zealand e 301.336 per lo stivale. Una estensione tutta in diagonale, con la differenza che laggiù il punto più freddo è all’estremo meridionale, dove soffiano incessanti i venti del polo sud.

Anche se le similitudini geografiche posson finire qui visto che tutti gli abitanti della Nuova Zelanda sono meno di 4 milioni, cioè circa come Roma e Milano messe assieme. Tanto che la loro densità per kmq è di 16 abitanti (26 nell’isola del nord e 6 in quella del sud), mentre la nostra è 192!

Basterebbero questi pochi numeri per prendere subito l’aereo e partire… visto anche che la nostra meta, l’isola del nord, è in piena primavera e si affaccia sull’estate.

Lontano dalle città, vedrete, non è raro fare chilometri e chilometri, pardon! miglia e miglia, senza incontrare anima viva.

 

Il volo per raggiungere Auckland è piuttosto lungo e necessita di una tappa negli Usa o in Asia da qualche parte. Vi consiglio di non correre come matti perché il jet lag affatica tanto e se vi è possibile di fermarvi un giorno o due nella tappa obbligata, per farla divenire un piacevole intermezzo del viaggio.

 

La città più grande.

Auckland, principale città neozelandese, vera e propria capitale delle isole del Pacifico, con circa un milione di abitanti, ma con almeno altre trecentomila nel distretto intorno è ormai famosissima anche da noi dopo le ultime edizioni dell’America’s cup di vela. E’ una bellissima città di mare, piena di verde e di spazio, con poco traffico.

E’ il più importante porto del paese, situata su uno stretto istmo che separa i porti di Manukau sul mare di Tasman e Waitemata sull’oceano Pacifico. Il clima è mite, temperato oceanico, le estati sono di 3-5 gradi più fredde di quelle italiane, alle stesse latitudini, a causa dell’oceano australe, raffreddato dall’enorme massa di ghiaccio dell’antartide.

La città quale oggi la vediamo è eredità della colonizzazione europea. Olandesi ed inglesi vi arrivarono intorno al 1820, ma la storia del luogo ha inizio intorno al 1350 quando vi si insediarono diversi villaggi Maori, tanto che all’arrivo degli europei la popolazione locale era di circa 20 mila persone.

Oggi la città sembra quasi San Francisco, ma è molto più tranquilla ed ordinata. Ciò che colpisce subito subito è la luce. La bellissima luce antartica. Con un cielo basso e polarizzato, blu o azzurro intenso, mai bianco latte. Un cielo regno di nuvole che corrono veloci in questa terra di vento e di mare, di sole e di uccelli che volano dovunque. Già gli uccelli. Ne ho sbagliato di foto i primi giorni! Perché da noi quando vedi un animale da fotografare devi essere pronto a focheggiare all’infinito perché scapperà sicuramente. Ecco gli uccelli locali ti vengono incontro curiosi!

Si riesce a fermarsi a far foto dalla visuale giusta praticamente senza venir disturbati dal traffico che va ordinato e quasi “silenzioso”!

E poi i “kiwi”, come i neozelandesi chiamano se stessi, sono cordiali ed ospitali. Occorre solo superare l’imbarazzo dello slang locale, di un inglese poco british che potrebbe spaesare un po’ all’inizio.

Non mancate di visitare la torre della televisione, ardita ed avveniristica costruzione, da cui si gode uno splendido panorama su tutta la baia di Auckland e sulle mille barche che ne solcano i suoi mari.

Da visitare assolutamente è lo splendido museo della civiltà Maori, con incredibili reperti della cultura indigena della Nuova Zelanda e moltissime testimonianze di altre culture dei popoli delle isole dell’oceano Pacifico. Interessante e abbastanza moderno è anche il museo di storia naturale della città.

Ma se avete voglia di fare un giro più completo, visitate anche l’antica dogana, il Victoria Park Market, il vecchio municipio e la Art Gallery dove sono esposti diversi dipinti originali della famosa traversata di James Cook.

 

Alla scoperta di North Island.

Ecco se sin qui ad Auckland è stato abbastanza facile ora iniza il difficile. Preso il nostro camper si parte alla scoperta di questa isola bellissima… ricordandoci che la guida è a sinistra e le indicazioni sono in miglia, perché la cultura britannica proprio non ci sente all’idea di allinearsi con il resto del pianeta. E così in questo paese appartenente al Commonwealth diamo la precedenza a sinistra!

 

Appena 20-30 km fuori dalla metropoli è aperta campagna. Il verde ed il blu sono i colori di questa terra fertile e percorsa da tanti corsi d’acqua liberi da cemento come non si può immaginare per noi europei.

Nelle campagne regna indisturbata la fiducia. Lungo le strade, spesso, troverete dei banchetti con frutta e altri prodotti agricoli, spesso già in sacchetti porzionati a costi esposti. Ma non c’è nessuno. I neozelandesi si fidano che voi sarete così onesti da prendere quel che vi serve e lasciare il denaro corrispondente nella cassetta apposita. Per noi è pura fantascienza!

 

Orewa.

Lasciato l’hinterland di Auckland, ci dirigiamo a nord, lungo la State Highway 1. Cerchiamo subito il caldo lungo la Hibiscus Coast. Scopriamo la lunghissima spiaggia di Orewa tra stuoli di confidenti gabbiani della Nuova Zelanda (Red-billed Gull).

 

Northland.

Dopo questo primo bagno nell’oceano Pacifico, proseguiamo il nostro viaggio verso l’estremo nord dell’isola, “persi” per le stradine del Northland. Son posti bellissimi. E’ tutto un susseguirsi di piccoli fiordi che si insinuano tra boschi e foreste primigenie. Questa terra è parte della storia del paese. Fu qui, infatti, che i Maori formarono la propria cultura. Qui si insediò la prima colonia di cacciatori di balene e fu firmato il trattato di Waitangi. Il 6 febbraio del 1840 (oggi è festa nazionale) i capi Maori siglarono un trattato con la corona britannica per cedere la sovranità sulla Nuova Zelanda alla regina Vittoria. Non sapremo mai cosa gli raccontarono per convincerli, tanto che alcuni storici dicono che il testo del trattato tradotto in lingua maori era molto meno vincolante di quello originale in inglese. Sta di fatto che così i francesi dovettero abbandonare ogni pretesa sull’isola del sud, su cui stavano provando ad insediarsi. Le cose non andarono tutte lisce però, tanto che tra il 1843 ed il 1870 ci furono tre sanguinosi conflitti tra i Maori ed i “Pakeha” (coloni) che gli sottraevano le terre migliori. La triste conclusione fu che gli indigeni furono relegati in riserve, con tutte le difficoltà di integrazione che ne son seguite, sino ai giorni nostri. Il trattato di Waitangi è oggi cronaca quotidiana e non solo storia. In quel documento infatti si afferma la tutela dei diritti della minoranza Maori. E oggi che la Nuova Zelanda è terra di emigrazione per altri popoli delle isole del Pacifico o dall’Asia, sono proprio i Maori che non vogliono la modifica delle leggi per aprire il paese alla multiculturalità.

 

Le foreste di Kauri.

Proseguiamo, dunque, sempre verso nord. Quel “nord senza inverno” dei racconti di viaggio. Il clima è mite, le spiagge son bellissime e le foreste davvero primordiali. Qui ci sono anche alcune delle più belle zone da immersioni di tutta la Nuova Zelanda, già amate e frequentate da Jacques Cousteau.

Ma non perdete assolutamente la visita alle foreste di pino Kauri (Agathis australis). Il terzo albero più grande del mondo che ha seriamente rischiato l’estinzione ed oggi viene amorevolmente protetto nei parchi e nelle riserve di questa penisola nord.

I coloni europei, per estendere i pascoli, infatti, han distrutto gran parte dell’originaria copertura forestale (che oggi occupa il 29% della superficie), costituita da palme e felci giganti che costituiscono un paesaggio vegetale unico ed affascinante. Deviamo quindi sulla strada n. 12 per Omapere. Rientriamo quindi sulla statale n. 1 per non mancare la visita a Ninety miles beach e a Cape Reinga.

Come dice il nome la spiaggia è lunga 90 miglia e costeggia tutto il lato occidentale della penisola di Aupouri. E’ praticamente integra come noi neanche possiamo sognare in Italia.

Proseguendo arriviamo quindi al capo della penisola. Dove l’oceano Pacifico precipita rumorosamente nel mare di Tasman, con onde di oltre 3 metri. E non è una licenza poetica.

I fondali della Nuova Zelanda, infatti, son profondissimi: il mare si inabissa fin oltre 5000 metri verso l’Australia e oltre 9000 metri sul versante orientale. Qui davvero la geologia e la geografia son storia e religione. La piattaforma continentale australiana finisce qui e il crollo nell’abisso sottostante è davvero fragoroso, da non perdere. Dal faro di To Rereinga Wairua potrete ammirare uno degli spettacoli naturali più belli ed inconsueti del pianeta. Mi raccomando di rispettare i luoghi che son parte integrante della mitologia e della spiritualità Maori.

Ritornando a sud, dopo la visita a questo bellissimo angolo di mondo fate un salto a Spirit bay: c’è un’area di sosta da dove potrete ammirare il cielo stellato del Northland. Un luogo un po’ essenziale ma spettacolare. Una precauzione: l’area è invasa dalle “sandfly” una specie di moscerino che ha una pinzatura davvero noiosa. Quindi mi raccomando utilizzate un repellente apposito (nel paese ce ne sono di ottimi anche bio e naturali, piuttosto efficienti).

Andando a sud sulla statale n. 1, ci fermiamo a Whangarei per visitare una “kiwi house”, presso il locale museo, un luogo in cui poter osservare nel buio artificiale i kiwi in un regime di semilibertà.

Attenti al rientro verso Auckland… fate in modo di non farla coincidere con il rientro dal week end o perderete tempo prezioso.

 

Un aneddoto di viaggio.

Mentre rientravo a sud, ci siam fermati per una sosta ma non trovando campeggi liberi, scegliamo un B&B. Fuori zoccoli di legno ci dicono chiaramente l’origine dei nostri ospiti. Olandesi che son qui da 40 anni. Il giorno prima ci siam fermati anche a casa di un ciclista svizzero colpito dalla bellezza della Nuova Zelanda, tanto da non rientrare in Europa neanche per prendersi le cose da casa! Effetto dell’altro mondo, quello a testa in giù che ti fa davvero sognare di cambiare.

Ma è poi possibile? Leggo il giornale di Auckland e scorro anche la pagina degli annunci di lavoro. Resto senza parole. L’amministrazione del “Department of Conservation” cerca un guardiaparco e la redazione dello stesso giornale cerca un fotoreporter… da non crederci, senza concorsi o estenuanti praticantati a zero lire. Davvero un altro mondo!

 

Penisola di Coromandel.

Sognando ancora di restar lì, superiamo l’area metropolitana e giriamo sulla statale n. 2, lambendo la penisola di Coromandel verso la baia di Plenty. Qui sbarcarono i primi Maori in canoa dalla Polinesia: un posto bellissimo.

Dopo la spiritualità di Cape Reinga andiamo a caccia di ambienti naturali e uccelli in libertà.

Le strade son piene di curve e occorre fare attenzione, anche perché ci son tanti opossum per le strade, soprattutto di notte. E’ una storia triste però. Perché questo mite mammifero australiano è stato inopportunemente introdotto in Nuova Zelanda. Qui, in assenza di predatori, si è riprodotto a dismisura sino a divenire un flagello per le colture ed i boschi. Un po’ come il cinghiale da noi. Ora la tragedia è che i neozelandesi lo puntano sulle strade e lo ammazzano con le auto in una sorta di “delirio ecologico” nazionale.

Ma la baia di Plenty oltre che per il turismo è nota per la produzione dei kiwi, autentica ossessione nazionale.

L’Actinidia chinensis, come dice il nome scientifico è un albero da frutta originario della Cina. Ma è in Nuova Zelanda che ha conosciuto un grande successo in termini di coltivazione agricola e di suo sfruttamento commerciale. Tanto che in alcune aziende agricole ci sono veri e propri musei-negozi a base di kiwi. Dai saponi ai profumi, dalle tisane alle marmellate, per giungere ad abbigliamento ispirato dal frutto, davvero ci si può trovar di tutto. Anche se ormai il leader mondiale della produzione del frutto verde è proprio l’Italia.

 

Rotorua.

Ci dirigiamo ancora a sud verso la zona dei geyser. Deviamo sulla strada n. 30. Rotorua è uno dei luoghi più famosi di North Island. Sia per la sua geotermia vivace ed attiva sia perché qui i Maori sono una realtà sociale oltre che un mito: il 30% circa degli oltre 50 mila abitanti della città (nel paese sono complessivamente il 15%).

Nell’aria c’è dovunque il tipico odor di zolfo. Il villaggio Maori è tutto una polla gorgogliante di fango e acqua bollente. I geyser sono dovunque. Tra questi la meraviglia è il Pohutu con un getto di 20 metri d’altezza! Non mancate di visitare i negozietti Maori, di assaggiare la pannocchia di mais cotta nel geyser o di andare a vedere uno spettacolo di danze indigene. Ne resterete affascinati e scoprirete che i Maori non corrispondono per niente al mito del “buon selvaggio”. La Nuova Zelanda e le Hawaii (e forse l’impero Inca) infatti, sono le uniche eccezioni note di disastri ecologici causati da popoli non europei in epoca storica. Il loro arrivo su queste isole ha infatti comportato una grande devastazione dell’ambiente, la scomparsa di tante specie animali e causato continue guerre fratricide. Sino all’arrivo degli europei che hanno approfittato della situazione di divisioni e completato l’opera di devastazioni ambientali. Oggi, per fortuna, la situazione è ben diversa e New Zealand è nota, oltre che per il rugby, il bungee jumping, la vela  ed i kiwi, oppure per il “Signore degli Anelli”, ma anche per essere un paese occidentale tra i più rispettosi dell’ambiente naturale.

La Nuova Zelanda, infatti, è stata tra le prime nazioni al mondo ad istituire parchi naturali.

 

Tongariro national park.

Seguendo la statale n. 5 e deviando sulla strada n. 47 raggiungiamo uno dei parchi più belli della Nuova Zelanda. Il Tongariro, situato nella zona centrale dell’isola del nord, è il primo parco istituito in Nuova Zelanda ed il quarto al mondo! Un’area protetta di poco meno di 800 kmq, situata a metà tra Auckland e Wellington, la capitale del paese.

E’ una zona vulcanica; tre i vulcani più significativi: Tongariro, Ngauruho e Ruapehu.

Son luoghi molto belli, di natura “alpina” con boschi e foreste, muschi e licheni, ma anche tante specie endemiche (cioè esclusive di questi luoghi), tra cui il rarissimo kiwi, un uccello che non vola,  simbolo del paese, ma ormai seriamente minacciato di estinzione. Il Tongariro è un’area protetta molto nota ed amata dai cultori del trekking. Ad avere un po’ di tempo sarebbe davvero il caso di fermarsi un po’. Lasciar riposare il camper e…mettere in moto le gambe!

Ma se avete poco tempo, almeno fermatevi al centro visitatori del parco a Whakapapa dove troverete una ottima esposizione dei valori naturali del luogo e delle possibilità di visita.

Lasciata questa bella montagna, ci dirigiamo verso lo stretto di Cook per raggiungere Wellington, tramite la statale n. 1.

 

Mount Bruce.

Giunti a Masterton raggiungioamo il Pukaha Mount Bruce national wildlife centre dove poter osservare in regime di semiliobertà una gran parte della fauna della Nuova Zelanda, tra cui molte di quelel specie in via di estinzione o minacciate.

Ci sono anche i Tuatara, rettili antichissimi che sembrano proprio dei piccoli dinosauri.

 

La capitale.

Eccoci quindi all’estremo sud dell’isola del nord. Siamo a Wellington, la capitale, seconda città del paese con poco più di 400 mila abitanti.

La città è un grande porto situato sullo stretto di Cook che separa North e South Island. Il nome è evidentemente derivato dal duca omonimo che vinse Napoleone a Waterloo.

Rispetto ad Auckland è molto più sonnacchiosa e provinciale. ma se paragonata a tutti i paesetti che abbiam visto nei giorni passati appar quasi senza confini.

La sua storia è quella di un porto e di una zona di quarantena durante le due guerre mondiali, ma è anche caratterizzata dalla presenza di una grande faglia tettonica che la interessa così da vicino da esporla a periodici micro terremoti. Ma la gente è assolutamente tranquilla e se ne parli con qualcuno ti sorride e ti dice “ma scusa e voi in Italia che vivete tutto intorno a vulcani attivi?”. Giusto, allora prendiamola con filosofia e avventuriamoci tra i vicoli o saliamo sul monte Victoria a vedere la panoramica dello stretto e della città.

Non mancate la visita al museo Te Papa Tongarewa, il più importante di tutta l’isola con esposizioni che riguardano la storia Maori e quella della colonizzazione, non solo britannica ma anche con attenzione alle altre popolazioni europee, come quella italiana.

Anche il museo Wellington merita, in quanto ricostruisce la vita sulle navi che han portato la gente sin qui dalle lontane regioni europee.

Percorrendo il bel lungomare della capitale, ci affacciamo sullo stretto di Cook, sognando di aver tempo per traversarlo e raggiungere South Island… magari un’altra volta. Ora consegniamo il camper e prendiamo l’aereo per Auckland e quindi per l’Europa.

Ma le foreste di Kauri, le spiagge infinite, gli stormi di uccelli confidenti e la serenità di questo cielo australe resteranno con noi.

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In tutti questi anni di attività outdoor, ho ideato e curato una notevole campagna di marketing territoriale, collaborando attivamente con diverse  riviste di settore come: “Bell’Italia” , “Dove”, “Itinerari e Luoghi”, “Guida Michelin”, “In Viaggio”, “Montagne 360°”, “Linea blu”… solo per citarne alcune.