Cammino.
Il tenue bagliore della luna illumina i miei passi. Sotto di me, a valle, si dispiegano le luci dei paesi, quasi specchiando il firmamento. Nel buio che mi circonda brevi fruscii attivano i miei sensi.
Domani mattina al lavoro.
“Dovrei essere a casa”, penso. Già la casa. È lì la sicurezza e la risposta? Un luogo in cui tornare, certo, ma nel quale non bisogna seppellirsi. Mai. Non siamo fatti per chiuderci tra mura, siamo fatti per uscire, rincorrere profili di monti lontani, salire colline e vedere cosa c’è dietro e poi di nuovo trovare un nuovo orizzonte da varcare. Lo sguardo che si perde e le corse del bambino attraverso i prati. Questo non è solamente un sogno romantico, ma una specifica costruzione della mente umana, un modello e un archetipo. Il bisogno di fuga è bisogno d’aria, di aria nuova e nuovi paesaggi.
In questi tempi in cui fattori esogeni ed endogeni alla nostra società spingono a rimanere tappati in casa o in ufficio non possiamo dimenticare che siamo stati creati per altro, per camminare e scoprire. La stessa nozione di casa che abbiamo creato è contraria al nostro vero spirito. Lo ha espresso perfettamente Matteo Meschiari, nel suo scritto tanto poetico quanto provocatorio, Disabitare: “Per due milioni di anni abbiamo vissuto a contatto con il fuori, non nel buio delle grotte, ma in luoghi intermedi tra il chiuso e l’aperto: spalle alla roccia, occhi nella valle. Pochi secoli di civiltà industriale e di urbanesimo ci hanno abituati a vivere in scatole da scarpe. Tutto l’abitare va ripensato da qui, dalla costatazione che ci piaceva e ci piace vivere all’aperto, che facevamo case temporanee, leggere, che avevamo di meno e immaginavamo di più”. La questione non è cambiare le nostre case, ma abituarci all’idea che appena possibile dovremmo vivere l’esterno, il bosco, la campagna o la montagna, perché è lì che, una volta superati i primi impacci, ci sentiamo veramente a casa. Il valore del cammino e dell’aria aperta apre le porte ad una visione che porta insegnamenti preziosi. Primo tra tutti insegna il valore dell’essenzialità. Le nostre case traboccano di oggetti inutili dai quali viviamo con terrore la separazione anche momentanea. È un allenamento anche saper fare a meno e sentirsi a volte più liberi. Non è una scelta francescana, ma un allenamento a saper rinunciare al superfluo che solamente vivere esperienze all’aria aperta consente, perché non possiamo portarci tutto dietro. In questo senso è importante saper lasciare ogni tanto il caldo delle nostre vite, varcare la zona di confort che ci appiatta ed uscire, uscire nel vento, sotto le stelle, riscoprire la nostra vocazione nomade e indomabilmente libera, anche fosse solo per qualche ora.Chatwin scrisse: “La selezione naturale ci ha foggiati – dalla struttura delle cellule cerebrali alla struttura dell’alluce – per una vita di viaggi stagionali a piedi in una torrida distesa di rovi o di deserto.Se era così, se la “patria” era il deserto, sei nostri istinti erano forgiati nel deserto, per sopravvivere ai suoi rigori, allora era più facile capire perché i pascoli più verdi ci vengono a noia, perché le ricchezze ci logorano e perché l’immaginario uomo di Pascal considera i suoi confortevoli alloggi una prigione”. Ecco perché l’aria aperta ci salverà. Ci farà scoprire, ogni volta, la libertà e l’essenzialità. Ci porterà in dimensioni che non sono quelle domestiche o lavorative, con le loro dinamiche prestabilite e avvilenti, ci metterà di fronte, ogni volta a quello che siamo, alla nostra voglia di gioco e di scoperta, alla purezza del cammino come parte naturale della nostra natura. Ci saprà avvicinare a ciò che siamo stati in passato e che, nonostante tutto non è ancora completamente morto in noi. Per questo alzatevi dal divano e uscite. Lì fuori c’è la parte migliore di voi.A darmi man forte in questo ragionamento chiamo a testimone Kipling: “Tutto considerato al mondo ci sono solo due tipi di uomini: quelli che stanno a casa e quelli che non ci stanno”. A te la scelta.